CUORE SHARKS
LA STORIA ROMANZATA DELLE PRIME 8 STAGIONI
L'INIZIO

Tutto era in ordine. Aveva piovuto, poco, in settimana. L’erba sulle fasce era insolitamente verde. La striscia centrale di terra, un binario largo come l’area di rigore e lungo tutto il campo, da porta a porta, era meno polverosa del solito. Le righe del campo sembravano addirittura dritte: difficile fare meglio con quella carriola sgangherata che pesava troppo e cigolava di più. I palloni, poi: quattro, repliche di quelli usati al mondiale appena concluso. Le maglie, nuove, erano taglia unica, extra large. Decisamente troppo grandi per essere riempite, ma decisamente troppo belle per essere le prime, vere maglie. Blu e gialle, aveva scelto lo sponsor. Sponsor vero, che aveva pagato anche l’iscrizione al campionato. E che aveva dato il primo nome alla squadra.

L’arbitro, un piccoletto non troppo giovane, aveva fischiato due volte per richiamare l’attenzione. «Ragazzi, l’appello». Mister Ricky, indaffarato tra distinte da compilare per la prima volta, chiavi degli spogliatoi e bandierine da affidare ai guardalinee di turno, era troppo impegnato per essere emozionato. «Buongiorno ragazzi, voi siete il Csi Stella Venegono?». Sì, eccola qui. Era la loro squadra, finalmente. Si chiamavano Ac Team, in realtà. Concessione necessaria per lo sponsor, che aveva messo i soldi. Però erano loro a rappresentare l’Immacolata, quell’oratorio dove erano diventati grandi. E via con la prima chiama. Ognuno con il suo numero preferito. «Signore per tutti» aveva recitato l’arbitro. A qualcuno era scappato da ridere. «Signore io? Ma se ho diciassette anni?». Poi, una volta in fila prima di entrare in campo, spalla a spalla con gli avversari, quello che aveva sorriso, di colpo aveva capito.

Di fianco c’era un portiere né troppo alto né troppo robusto. Non faceva paura, ma faceva strano una cosa: aveva i capelli bianchi. «Ciao ragazzi», aveva detto. Mai avrebbe immaginato che la risposta sarebbe stata «Buongiorno». «Cazzo, ma sono così vecchio?». Non buonissima, la prima. Però, risate, quelle sì, sin da subito. Troppa tensione non fa certo bene. Ed era tanta. Se è vero che l’attesa aumenta l’emozioni forti, beh, avevano aspettato anche troppo. La formazione la sapevano a memoria. Lucio; Mitch, Tac, Prema; Kap, Luka; Flo. In panchina Silvo, Matteo, Giò, Lupo. Nessuno schema particolare, nessuna giocata preparata. Ricky in panchina si era portato il cronometro «per controllare l’arbitro, mica che ci ruba qualche minuto».

Zero a zero per dieci minuti. Quasi una partita vera, poco spettacolo, tanti palloni calciati lontano. Fino a quando la palla arrivò a Prema, impegnato a violentarsi per difendere, lui che si è sempre sentito Del Piero. Destro di contro balzo. Gol. La storia si materializzò lì, in mezzo al campo, un attimo prima che tutti gli fossero addosso per abbracciarlo. Il primo gol della loro squadra. Immortale. Poi neanche il tempo di capire e si era già a giocare un altro pallone, poi un altro ancora. Sessanta minuti volati, così, gol dopo gol. Sette a cinque. Prima partita, prima vittoria. E che gioia negli spogliatoi, quegli spogliatoi sempre un po’ sporchi, sempre poco accoglienti. «Vinciamo il campionato». A Prema è sempre piaciuto fare lo spaccone. Ma tutti, in quel momento, gli davano ragione. Sognare, in fondo, non costava niente.

Era iniziato tutto così. Ottobre 2002, prima partita ufficiale. Ma in realtà era da un bel po’ che morivano dietro a quell’idea. Ci pensavano da più di un anno. E pian piano i pezzi si erano composti, sì dopo sì. Era stato il calciomercato più facile di sempre: era bastato mettere insieme la voglia di giocare, il campo dell’oratorio dove avevano speso estati intere, un minimo di organizzazione, un portiere (perché senza, è dura) e la squadra era fatta. L’avvicinamento al campionato era tutto un «oh, ma è uscito il calendario?».

Avevano stilato anche una specie di preparazione atletica, che era iniziata rigorosamente dopo la festa della birra. Che chiudeva l’estate, le serate, le uscite. Per qualcuno sarebbe stata più utile una clinica di recupero dopo quei quattro giorni al Septemberfest, dove si rimaneva sotto i tendoni fino a quando spegnevano le luci e non si spillava più birra. Mister Ricky era uno di loro. «Solo troppo vecchio per giocare». Era già vicino ai trenta, infatti. E non calcava certo la mano il giovedì sera, agli allenamenti. Uno strappo, anche due, alla tabella di marcia lo concedeva sempre. Con buona pace di Prema, che dopo tre giri di campo spariva dietro gli alberi. «Io sono vecchio, non posso mica correre così tanto». Nel 2002 aveva ventuno anni ma già si proclamava il più saggio, il più esperto. Ed era vero: con Silvo, Mitch e Luka ci aveva giocato fin da piccolo, facendo tutta la trafila nelle squadre del Csi Stella. «E ho a casa la maglia numero 11 di ogni anno, non le ho mai riconsegnate», si bullava di continuo. Tac, Kap e Flo erano altri reduci dalla trafila nelle giovanili del Csi. Anche Lucio, che era il più piccolo, aveva già giocato con Prema e compagni. Di portieri, si sa, ce ne sono pochi. E gli era già capitato di essere finito, a quattordici anni, a giocare con gente di venti e passa. Era già uno di loro. La prima partita, la prima vittoria, non aveva fatto altro che alimentare il sogno, la voglia e l’entusiasmo del gruppo.

Il campionato era scivolato via leggero, sabato dopo sabato. Non avrebbero mai potuto vincerlo, ma le soddisfazioni, quel primo anno, non mancarono. Come il derby con i rivali di sempre di Venegono Superiore. Quella vittoria, quel 10-3, restano scolpiti. Alla fine, un settimo posto, non male come inizio. A giugno si stava già pensando alla stagione successiva.

LA PARTITA PIÙ DIFFICILE

La telefonata era arrivata di sera, proprio prima di un allenamento. Il campionato era appena iniziato. La voce di Ricky era bassa, trasmetteva agitazione. «Lucio, niente allenamenti. Sono in ospedale, mi hanno detto che mi devono fare degli accertamenti. Sono un po’ preoccupato». «Ma no dai Ricky, tranquillo. Vedrai che non è niente». Era qualcosa, eccome. Di colpo, la squadra era senza allenatore. Anche se quello era l’ultimo dei problemi. La notizia aveva lasciato tutti intontiti, nessuno aveva più voglia di pensare al calcio: la vera partita la doveva giocare Ricky. Ma il sabato si giocava. Si guardarono tutti negli occhi: era uno dei due derby stagionali. E gli avversari erano grandi, grossi e forti. Ma quella partita non la si poteva perdere. Finì 4-3, come Italia-Germania. Fu una partita di sacrificio, di difesa forte e ripartenze velenose. Come se anche in campo i ragazzi volessero difendersi da quel male che li aveva attaccati, che aveva attaccato uno di loro e che sembrava più forte. Ma che si poteva battere. Presero un cartellone bianco, ci disegnarono un ‘3’. Poi tutti in ospedale, da Ricky. Entrarono tutti, forzando il blocco delle infermiere. «Mister, ti abbiamo portato i tre punti».

Mentre Ricky combatteva la sua battaglia fatta di ricoveri, chemio e esami, la squadra di colpo era senza guida. Difficile gestire i cambi e la formazione titolare. Per gli allenamenti, ci si arrangiava. Erano diventati l’unica squadra del campionato senza allenatore. E anche se erano tutti amici, era difficile che uno si chiamasse fuori da solo durante le partite, chiedendo il cambio. Situazione delicata, risultati pochi e un po’ di scoraggiamento. Ma un altro campionato era stato portato a termine, tra un rigore tirato da Lucio e una magia di Luka, che con quel 10 sulle spalle cercava sempre di fare il Roberto Baggio della situazione.

La festa della birra successiva era servita per cercare qualcuno che sostituisse Ricky: troppo duro un campionato senza qualcuno che decidesse almeno i cambi. Finì che uno dei più affezionati alla birra e al Csi disse di sì. Alessandro, per tutti Lulù, comandò, per modo di dire, gli Sharks per due stagioni.

IN CERCA D’IDENTITÀ

Finita la sponsorizzazione che aveva imposto nome e maglie, i ragazzi si erano trovati a dover mettere insieme qualche soldo per le nuove divise. E questa volta la scelta del colore era stata fatta in base alla tradizione. Maglie granata, i colori del Csi Stella. In realtà arrivarono delle maglie amaranto, più che granata. Nuovo sponsor, nuove divise. Nuovo nome. E siccome all’Immacolata era spuntata un’altra squadra, si sarebbe finito per chiamarsi Csi Stella A e B. Racconta la leggenda, però, che Silvo fosse rimasto sveglio una notte per vedere una partita di hockey americano. Giocavano i San Josè Sharks: una partita ormai persa e poi recuperata, con il cuore. «Dobbiamo essere come loro. Mettiamo uno squalo dentro una stella: sarà il nostro stemma». Venegono Sharks. Suonava esotico, faceva sorridere. Ma da quel momento loro erano gli Sharks.

A Ricky era stata portata una maglia granata-amaranto, numero 8. Anche lui era sempre uno di loro, anche se doveva dedicare tutte le sue energie alla sua partita. Che era durissima, ma affrontata con un coraggio da vero Sharks. Il momento più critico, quel mese passato in isolamento per dare il colpo finale al male, era passato. Ma c’era ancora tanto da combattere e da soffrire.

Gli Sharks, armati di maglia granata, viaggiavano nel loro solito campionato di metà classifica. Grandi serie di vittorie e partite buttate, qualche sconfitta netta. Il gruppo storico era sempre lo stesso: sette, otto, immancabili. Più due o tre che ogni anno andavano e venivano. Chi non capiva fino in fondo cosa volesse dire essere uno Sharks l’anno dopo se ne andava, magari rinfacciando una sostituzione di troppo.

Le regole erano sempre state poche. In pratica, una sola: autofinanziamento. Finiti i tempi d’oro dello sponsor ricco, ogni anno c’erano da pagare l’iscrizione al campionato, la visita medica, i palloni e tutto quello che serviva. Le borse erano tutte diverse: qualcuno aveva ancora quella di quando era bambino. Pezzi di antiquariato. Poi c’era sempre da gonfiare i palloni, compilare le distinte, riempire le borracce, segnare il campo con la solita carriola. Silvo e Lucio si dividevano gli impegni. E si occupavano anche delle campagna acquisti. Quando nell’estate 2006 Cannavaro alzò la Coppa, ecco l’ennesima idea.

Alessio non era mai stato uno di quelli da oratorio e pallone. Ma pur di stare in compagnia a ridere e fare casino, era disposto a tutto. Così: Italia Campione del Mondo e Alessio che voleva entrare negli Sharks. Saltò fuori l’idea di indossare la maglia azzurra dell’Italia, con tanto di stemma. E di coinvolgere anche chi non sapeva molto bene cos’era il pallone. Quindi Alessio e anche Marco, una vita passata a nuotare e guardare il basket. Gli Sharks in fondo non avevano mai avuto la pretesa di vincere. «Il gruppo, prima di tutto» non era la solita frase di un allenatore di serie A che doveva giustificare una sconfitta. Era la loro filosofia.

Quando si trovarono a sei giornate dalla fine con un piede nella zona alta della classifica, come al solito tutto finì ancor prima che se ne accorgessero. Un paio di sconfitte taglia gambe li aveva ancora una volta esclusi dalla possibilità di salire di categoria. Più o meno la stessa cosa che accadde l’anno dopo. Nessun dramma, però. A parte qualche sceneggiata negli spogliatoi. Finiva tutto lì.

RENATO, LO ZEMAN DI VENEGONO

Ricky intanto aveva vinto. Una partita durissima, ma lottata fino in fondo. Era il vero sollievo per tutti. Non poteva però rischiarsi un raffreddore per assistere agli allenamenti del giovedì sera di quei quattro scapestrati dei suoi amici. Che però avevano disperato bisogno di una guida, anche solo di rappresentanza. Scatenando tutte le conoscenze del paese, ecco che ne uscì l’identikit perfetto. Al primo allenamento della stagione 07/08 si presentò un signore sulla sessantina. Baffi e capelli bianchi, sigaretta sempre accesa. Un uomo di poche parole, sembrava. Quasi rude. Si presentò raccontando le sue avventure giovanili: era stato uno dei più grandi goleador del Csi Stella. Dopo un quarto d’ora di chiacchiere su campi spelacchiati e trasferte epiche, i ragazzi capirono. Mister Renato era uno di loro, a tutti gli effetti.

Il nuovo metodo d’allenamento era semplice: «Correte fino a quando non finisco di fumare». Il problema è che le sigarette non finivano mai, ma mai. Una dopo l’altra, ogni giro sembrava fosse appena stata accesa, la sigaretta. Era così. Gli Sharks correvano e Renato li guardava, fumando, senza dire niente. Poi, i ragazzi si fermavano stremati. Durante lo stretching Mister Renato li incantava con racconti di gioventù su donne e sale da ballo.

In fondo a questi ragazzi serviva esattamente una figura così. Che capisse cos’era il Csi, perché lo aveva respirato e vissuto. E soprattutto, fosse un uomo da oratorio Immacolata, dove dal 1946 giocavano le squadre del Csi Stella, fondata dal nonno di Lucio. Leopoldo, l’unico tifoso degli Sharks, era la memoria storica della società.

LEOPOLDO, IL VECCHIO E IL NUOVO

Una vita da panettiere, ma soprattutto venticinque anni di Juve al Delle Alpi. Leo si vantava di essere stato un attaccante di razza. Memorabili i suoi arrivi alle partite degli Sharks, sia in casa sia in trasferta, con il suo cappellino di ordinanza, gridando: «Pellegrini, quanto si perde oggi?». Poi subito dietro la porta di Lucio: «Ueh, Zenga, ma racumandi. Adesso dietro tutti a difendere la sconfitta».

I racconti di Leopoldo sul Csi Stella post guerra avevano fatto scattare di nuovo gli Sharks, che così avevano cambiato, ancora una volta, divisa: nera, come la prima della storia del Csi Stella. Maglie nere e nuovi acquisti. Lucio, con i gradi di capitano - dopo l’addio di Kap - e con più di centocinquanta presenze tra i pali (e più di dieci gol segnati: il tutto fedelmente registrato sul sito degli Sharks, realizzato con maniacalità da Silvo) non pensava di ritrovare un gruppo così unito. Oltre agli storici Mitch, Silvo, Luka, Prema e Flo la campagna acquisti aveva portato Caste, Danny, Ste, Akka. Più i due baby. Il primo, Roby, che di cognome fa Crespi, grazie a mamma Jeanine è nero quasi come Balotelli: ha diciotto anni e più gol che presenze con gli Sharks. Sua sorella Michaela sopporta Luka da dieci anni ed è l’altra tifosa fissa degli Sharks. L’altro è Tiziano, che è nato nell’89 e da ragazzino faceva il portiere: fino a qualche anno fa si allenava a far suonare le campane della chiesa rinviando il pallone più in alto possibile. La dirigenza Sharks l’ha trasformato in centrocampista.

EROI O PAZZI?

Marzo 2010. Piove, è un giovedì sera. Il campo ha più pozzanghere che fili d’erba. Lucio, dopo il primo tuffo, è più sporco e bagnato che mai. Una partita del girone di ritorno da non perdere. Sharks sotto di un gol. A otto minuti dalla fine Mister Renato mette in campo Luka. Lui stringe la sua ginocchiera, attorno a quel ginocchio sinistro operato due mesi prima. Entra in campo, va in scivolata, vince un contrasto e serve l’assist del pareggio. Non siamo a Usa ’94 e Luka non è Franco Baresi, che si opera al menisco e venti giorni dopo gioca la finale del mondiale. È molto di più. Luka ha il crociato rotto, anche dopo l’operazione che gli ha tolto il menisco e pulito la cartilagine. Il chirurgo gli ha detto forte e chiaro di evitare di giocare. Passione o follia?

Luka è solo l’ultimo ferito, nelle battaglie del sabato pomeriggio. Il primo a rompersi qualcosa era stato Lucio, nei pulcini. Poi Flo e Tac, ancora ragazzi, ci rimisero il ginocchio. Fino ai bollettini medici quasi mensili degli anni degli Sharks. Campi duri, un solo e blando allenamento alla settimana, fisici non proprio scultorei. Sfortuna. La conta è lunga. A Giò era saltato un legamento del ginocchio, per poi, due anni dopo, tornare a decidere una partita all’ultimo secondo, rischiando di soffocare per l’abbraccio dei compagni. Tac si è dovuto ritirare: il suo crociato non poteva reggere. Marco aveva lasciato una caviglia nella buca del campo. Prema si è trovato con il ginocchio fuori posto dopo un recupero difensivo. Mitch si è rotto una clavicola dopo essere stato catapultato per su un campo di cemento da un avversario un po’ agitato. Poi gli Sharks hanno chiamato in squadra Fabrizio, che all’ultimo allenamento prima del debutto ha sentito il ginocchio fare crac. Per non parlare di quell’altra telefonata arrivata dal pronto soccorso, sì, un’altra, che ha gettato nella disperazione tutta la squadra. Silvo si era schiantato in auto mentre tornava dal lavoro. Una settimana in rianimazione, poco prima dell’inizio della stagione 08/09. Milza salva, poi tre mesi a letto per salvare la schiena. A settembre 2009 il ritorno in campo. INFINE LA GLORIA

Sette stagioni senza successi in un attimo sembrano non pesare più. Gli Sharks iniziano la stagione con 14 gol. Non si fermeranno più. Un pareggio, tre sconfitte, 20 vittorie. Le parate di Lucio, la difesa impenetrabile di Danny, Silvo, Marco, Brighe e Silvo. Le sgroppate di Mitch e Mizzo, la corsa e i gol di Roby, le punizioni di Tizi, la classe di Luka, i tanti gol di Flo e Caste. In un attimo gli Sharks trovano il ritmo, la voglia, le gambe per dominare. Forse merito del doppio allenamento, forse dei percorsi di guerra inventati da Tizi. Forse, anzi sicuramente, dell’amicizia e dell’unione di un gruppo senza precedenti. I travolgenti Sharks battono tutti, si rialzano quando sono sotto, lottano, tirano dritti. Dopo otto anni di sudore e lacrime, arriva la vittoria del campionato e la promozione. Finalmente partono i tappi delle bottiglie, Mister Renato finisce fradicio come gli allenatori di Serie A, quelli che vincono. Le tifose indossano le maglie celebrative, in campo è una festa. Resta, in tutto il campionato, un’immagine. La più bella, che passerà alla storia e che spiega la stagione, che spiega gli Sharks. Sotto nel derby, Brighe calcia da centrocampo e trova il gol della vita, il gol del pareggio. Non fa in tempo ad alzare le braccia che tutti gli sono addosso, lo baciano, lo stringono. Il cuore Sharks si racchiude in un mucchio di pazzi che stritolano Brighe. Che, non appena si riprende, parte e va a segnare il gol del vantaggio. Per un’altra gioia, un’altra festa. Sono gli Sharks, ragazzi. Che finalmente hanno vinto e hanno fatto festa. Ma che se anche non avessero vinto, sarebbero rimasti sempre gli stessi. Un gruppo, degli amici, dei pazzi. Sharks!